Profumo di Primavera
La nostra società alimenta nevrosi collettiva quando agisce rimuovendo i problemi, trovando come via di soluzione l’indifferenza e la chiusura nelle lobby di potere.
Quanta esclusione sociale ci troviamo a costatare ogni giorno quando i più poveri vengono marginalizzati e privati del necessario per sopravvivere e riscattarsi. Tutto questo genera una inaudita violenza perché alcuni si sentono schiacciati dal peso della vita e altri sperimentano il terrore che possa emergere il male diffuso ossia le problematiche mai affrontate. Anche i legami si sfaldano per questo motivo perché la soluzione a questo stato di cose è posta nell’individualismo autoreferenziale dove ciascuno si sente giusto di fronte all’altro da condannare.
Abbiamo bisogno, piuttosto, di attraversare la storia a cui apparteniamo entrando anche nelle contraddizioni più complesse per prendercene cura e, così, andare oltre ma non da soli.
La metafora del viaggio è la più appropriata nel descrivere l’esistenza di ciascuno e, in questo senso, anche gli ostacoli o le soste per rialzarsi e riprendere forza, dopo le cadute, sono solo dei tratti di un cammino che si rivolge incessante verso la meta. Anche l’inverno non è la fine di tutto ma solo la promessa di una nuova primavera. È nel solco di questa speranza e attesa che si regge il cammino di chi non si accontenta, di chi non si passivizza cadendo nella mera sfiducia e rassegnazione.
Certo, per sostenere l’inverno, è necessario fare la pace con l’incertezza e la precarietà propria della condizione umana finendola, dunque, con l’incessante pretesa di controllo e certezza.
Il sapore di primavera ogni essere umano lo porta già dentro e non va disperso o asfissiato dalle tante suggestioni del momento che vorrebbero riorientare in modo illusorio o, ancora, arrestare il passo della vita. Il sapore, invece, va custodito e nutrito così come quando si sparge il buon seme e il terreno seminato continua ad essere curato anche se all’apparenza nulla si vede.
Mantenere il sapore dipende, pure, dalla capacità di accoglienza perché nessuno può bastare a se stesso. Chi si sperimenta in cammino è ospitale cioè sa fermarsi per interesse dell’altro che incrocia rimanendo in ascolto per accogliere quanto l’interlocutore desidera consegnargli.
L’ospitalità nel mondo biblico così come in quello greco è sacra, in primo luogo perché capace di salvare la vita altrui e, poi, perché opportunità per vivere l’incontro con Dio. Senza ospitalità tutto si ridurrebbe ad un freddo calcolo disumanizzante.
Ascoltiamo dalla liturgia di oggi che Abramo vive l’inverno dell’attesa, sebbene longevo e ancora non ha una discendenza, fidandosi perché ha accolto la promessa di Dio.
Come quando si custodisce il seme che alla nuova stagione germoglierà così Abramo custodisce la Parola e questa lo porta ad accogliere i tre ospiti alle Querce di Mamre. Mantenersi nel bene lo porta ad accogliere Dio e da questo incontro ne riceverà la rivelazione dell’imminente arrivo di un figlio. L’accoglienza, così intesa, non è finalizzata ad un proprio tornaconto, è desiderio di bene per l’altro e proprio questo atteggiamento permette di ricevere il dono gratuito di Dio.
L’episodio analogo che ci racconta il Vangelo di oggi, è quello dell’accoglienza di Marta che prontamente ospita Gesù in casa sua. Una scena familiare che esprime grande intimità: nel mentre che Marta prepara affaccendandosi in molte cose per amore dell’ospite, la sorella sta ai piedi del Maestro per accoglierne la parola.
L’ospitalità autentica è quella che non pretende di piegare l’altro alle proprie aspettative, l’altro rimane una sorpresa e, pertanto, l’ascolto gli permette di manifestarsi. Marta, invece, se da un lato agisce per servire, dall’altro si appropria dell’ospite dettandogli il rimprovero da impartire alla sorella.
È così che il servizio perde di significato e l’esistenza si trasforma in piano formale ed egocentrico.
Gesù esce subito dalla logica della competizione e indica che Maria si è scelta la parte buona cioè l’unica parte che conti perché tutto il resto è conseguenza di quel che si accoglie.
Viene, dunque, mostrato l’itinerario del cammino spirituale che non parte da se stessi ma da Dio e l’ascolto viene indicato come l’atteggiamento cardine su cui può poggiare ogni tipo di servizio o progetto da realizzare.
Coordinate fondamentali se pensiamo che troppo spesso si naviga senza prospettiva fondando il quotidiano sull’impulsività del fare per accumulare bonus successi o per dimostrare a se stessi che si è efficaci e degni di riconoscimento o, ancora, per la brama compulsiva di trovare appagamento e piacere dai possessi accumulati.
Tale logica trasforma le relazioni in dinamiche di potere, ad esempio, è l’accoglienza che regola le cosche mafiose dove l’amicizia e l’appartenenza alla famiglia è frutto della sottomissione al potente di turno. Ma ciò può investire la politica o gli apparati pubblici come nel caso in cui gli uffici a servizio del bene comune diventano ruoli di potere da spartire ai propri adepti.
Tornando al Vangelo, Maria ha compreso che il fine utilitaristico non è il punto di partenza e si lascia sorprendere dalla parola dell’Ospite accolto nella loro casa. Non è concentrata sul fare ma sul volto dell’interlocutore che ha innanzi, fa spazio all’altro ed è questa l’arte più nobile che appartiene alla possibilità dell’essere umano.
Dopodomani ricorderemo l’efferato attentato di via D’Amelio in cui trent’anni fa persero la vita il magistrato Paolo Borsellino, e i cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Loro non si sono limitati a compiere il loro dovere ma sono andati oltre facendo spazio all’umanità che vive la nostra terra ferita e piegata dal male mafioso. Avevano colto, cioè, che la custodia del bene comune riguarda tutti e l’ospitalità non è questione formale ma significa farsi carico esistenzialmente dell’altro e della complessità in cui vive.
Paolo Borsellino sentiva la responsabilità morale per la gente che gli moriva attorno e mai avrebbe scelto l’indifferenza. Raccontava la sua battaglia con queste parole: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
A ciascuno è dato il compito di accogliere la bellezza della nostra terra e di restituirla attraverso il proprio quotidiano.