Per chi vivo
Le parole del Vangelo di questa domenica, dove Gesù afferma che la vita non dipende dall’abbondanza dei doni ma dall’uso che se ne fa, mi rimandano ad innumerevoli testimoni che hanno accompagnato la mia infanzia quale segno eloquente di cosa significhi consumarsi per il bene e, così, “accumulare tesori in Cielo”.
In particolare torna alla mente la figura dell’onorevole Moro, ne scoprii la portata in modo improvviso quando il giorno del mio compleanno arrivò notizia del suo rapimento durante il tragico agguato di via Fani a Roma. Un’azione lampo che strappo la vita ai cinque agenti di scorta, avevo appena compiuto otto anni e credo che quelle fossero le prime immagini così cruente in cui impattai nella mia giovane età, ricordo i corpi inermi e cosparsi di sangue nelle auto crivellate di colpi. Accumulare beni per se stessi, mi rendo conto, può diventare una gelida postura di vita che può arrivare a giustificare i crimini più efferati.
Le mattine a scuola, ricordo, diventarono un laboratorio di ricerca per conoscere e riflettere su quel che stava accadendo, erano gli anni di piombo in cui le giornate venivano scandite dalle notizie di cronaca sugli attentati terroristici, sulle lotte di piazza e, nel nostro territorio, sulla guerra di mafia.
Provocazioni che hanno segnato la nostra generazione seminando un’inquietudine per le ingiustizie perpetrate e per le trame sottostanti che lasciavano intendere intrecci di potere tra apparati degli Stati, servizi segreti, massoneria e mafie.
Negli anni approfondii la statura di Moro e mi resi conto che quell’autorevolezza era legata alla sua capacità di andare avanti mantenendo la sua carica di umanità e di prossimità nell’ascoltare la voce del popolo e le istanze di cambiamento insite nella società di quegli anni. È così che, oggi, intendo il consumarsi per l’altro, nel quotidiano senza gesti eclatanti ma seminando il bene in ogni modo.
Fu un politico umanista, ad esempio, partecipando alla Costituente difese i diritti e la dignità del nostro Paese e quando Togliatti nel definire i contenuti del primo articolo della Costituzione propose di inserire la forma “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”, lui reagì proponendo la differente formulazione “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, e cioè volle mantenere il senso del primato della dignità umana da cui deriva la capacità di lavoro.
Non un uomo di potere legato alla poltrona del governo come quando, nel 1966, non esitò a dimettersi dall’incarico di presidente del Consiglio perché non trovò consenso nella votazione inerente il finanziamento dell’istruzione privata. Vi riuscì il 18 marzo 1968 quando venne promulgata la legge 444 sull’ordinamento della Scuola Materna Statale che fino ad allora, di fatto, non esisteva se non privata. Ci rendiamo conto di come fu un profondo precursore, antesignano della riflessione che nei decenni successivi avrebbe portato alla centralità degli studi sull’infanzia e sull’educazione precedente ai sei anni di età.
Il profeta è chiamato a guardare avanti mantenendo, però, l’indice referenziale legato ai piccoli e alle fasce di popolazione più deboli. Lui predilesse l’insegnamento per rimanere vicino ai giovani e non lasciò la politica a motivo della profonda responsabilità che avvertiva verso le nuove generazioni fino ad accettare i rischi che comportava la difesa del dialogo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano che, proprio nel giorno del rapimento, entrava nella maggioranza di governo grazie alla sua mediazione.
Quella mattina, infatti, Moro avrebbe partecipato al dibattito che si sarebbe svolto alla Camera dei deputati per la nascita del nuovo governo che avrebbe visto il voto favorevole dei comunisti.
In Sicilia il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, in stretta sinergia con Moro, aveva realizzato la stessa intesa politica con la sinistra e dal febbraio 1978 era a capo del governo regionale con l’appoggio del PCI, avendo avviato un piano di riforme istituzionali volto a garantire la trasparenza e la moralità del governo regionale.
Precedentemente, nel 1973, aveva invitato Moro a Palermo e, durante la riunione con i politici della loro corrente democristiana, Mattarella così esordiva: «interprete coerente e responsabile della funzione autenticamente popolare della DC, che non è mai stato un partito dei conservatori o di chi ha tutto conseguito, ma al contrario l’espressione, per la sua vera ispirazione cristiana, dell’esigenza di cambiamento, per il progresso civile, un più accentuato sviluppo democratico, una maggiore giustizia sociale».
Anche Mattarella fu ucciso, il 6 gennaio 1980 in via Libertà a Palermo nel mentre che stava andando a messa, una esecuzione spietata dalla matrice politico mafiosa. Il cardinale Pappalardo durante la celebrazione del funerale affermò: “una cosa sembra emergere sicura, ed è l’impossibilità che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa. Ci devono essere anche altre forze occulte, esterne agli ambienti, pur tanto agitati, della nostra Isola. Palermo e la Sicilia non possono accettare o subire l’onta di essere l’ambiente in cui ha maturato l’atroce assassinio”.
La medesima trama, non riconducibile al solo movente terroristico, emerse per l’omicidio di Aldo Moro e, lo stesso giorno, per quello di Peppino Impastato, giovane attivista e giornalista di Cinisi. Quest’ultimo, oltre a contestare apertamente il sistema mafioso, ebbe ad indagare sulla strage che costò la vita a due carabinieri ad Alcamo Marina uccisi di notte all’interno della stazione dei carabinieri dopo che, il giorno prima, avevano fermato un furgone con armi dell’organizzazione paramilitare Gladio. Peppino Impastato aveva sollevato la questione ipotizzando il possibile movente della strage.
Ho compreso, negli anni, che Moro, Mattarella, Impastato e così tanti altri, non sono degli eroi ma uomini che hanno avuto il coraggio di ricercare la verità per difendere la giustizia. Senza verità, infatti, si propaga l’ingiustizia e se ci troviamo ad assistere ad un continuo divario tra pochi potenti che decidono le sorti di un Paese è perché un certo sistema trasversalmente collude con apparati deviati dello Stato, mafie, piduisti e logge di potere internazionale. Il loro tornaconto è la ricchezza e il potere che si regge sul consenso, il prezzo è la miseria di tanti e l’eliminazione di chi pensa diversamente.
Pensare che all’onorevole Aldo Moro non arrivò mai l’auto blindata che aveva richiesto seppure il pericolo di un attentato fosse assai presente, o che al giudice Paolo Borsellino non fu concessa la vigilanza e la zona rimozione in via Mariano D’Amelio dove si recava per fare visita alla madre e alla sorella e che, ancora prima, al collega Giovanni Falcone non fu garantito il segreto degli spostamenti che, forse, avrebbe potuto custodirgli la vita, è solo un dettaglio di una trama molto più complessa che, puntualmente, ha deciso di fermare uomini dello Stato che della giustizia sociale avevano fatto la loro missione di vita.
Il nostro tempo ci chiede un’assunzione di responsabilità e un fuoriuscire dall’individualismo che continua ad alimentare sfiducia, indifferenza ed isolamento. Il bene comune è una questione vitale per noi e per le generazioni future, e ciascuno ha la responsabilità di guardare al domani e non per accumulare ma, come ci ricorda il Vangelo, per condividere il dono ricevuto.
Ricordo, in ultimo, quanto ebbe ad affermare Moro durante l’undicesimo Congresso della Democrazia Cristiana tenutosi a Roma nel mese di giugno 1969: “Il potere si legittima davvero e solo per il continuo contatto con la sua radice umana e si pone con un limite invalicabile: le forze sociali che contano per se stesse, il crescere dei centri di decisione, il pluralismo che esprime la molteplicità irriducibile delle libere forme della vita comunitaria”.
Ecco l’unico potere che conta: servire il prossimo per custodirne e promuoverne la crescita e l’espressione del bene che gli è stato donato.