Natale è compromettersi per l’altro
Fede è compromettersi accettando di abitare la fragilità dei legami e cioè la vulnerabilità che ci espone all’altro quando decidiamo di amare gratuitamente.
L’individualismo contemporaneo opponendosi alla fede viene offerto come via preferenziale per appagare il proprio compiacimento e, così, non doversi scomodare per l’altro.
Il modello offerto è quello dell’usa e getta e, in questo modo, si evita la fatica propria della relazione e del sostare con l’altro. Viene dunque propinata una nuova visione pseudoreligiosa quale panacea risolutiva di ogni sofferenza e fonte della vera felicità.
Di fatto questa promessa è stata disattesa e, ora, stanno emergendo nuove forme di disagio e di patologia dell’animo umano accomunate da un profondo senso di solitudine caratterizzato dal vuoto e dalla noia esistenziale.
Senza relazione, infatti, non c’è vita e questo non solo per un aspetto biologico ma perché siamo rigenerati continuamente attraverso i rapporti umani e gli incontri i quali permettono l’espressione della creatività con l’esplorazione del mondo circostante.
La fede è prima di tutto relazione e cioè desiderio dell’altro, attesa e compimento, immersione e conoscenza anche se solo parziale e che immette in un cammino di ricerca.
La famiglia di Nazareth, di cui oggi celebriamo la festa, rivela come è possibile vivere relazioni generative in tutti i rapporti umani e non solo in quelli parentali. Questo accade quando l’altro è accolto quale dono e non oggetto di possesso e tale consapevolezza permette di esserne custodi con vivo senso di gratuità e gratitudine fino a lasciarsi destabilizzare dall’accoglienza: Maria oltre a perdere i progetti preventivati rischia di essere lapidata; Giuseppe è chiamato a fidarsi di un sogno e, dunque, a lasciarsi condurre aldilà del calcolabile.
L’accoglienza del figlio li compromette dunque, procura loro un nuovo assetto di vita basato sull’ascolto e l’attesa, la fiducia e la responsabilità quotidiana.
Lo smarrimento e il successivo ritrovamento di Gesù al tempio, inoltre, costituisce un episodio evolutivo centrale per la crescita della famiglia di Nazareth.
Vanno a Gerusalemme, al tempio, come prescriveva la Legge perché Gesù aveva già compiuto i dodici anni e pertanto doveva dare prova della sua conoscenza della Scrittura perché adulto. Ora doveva mostrare la sua responsabilità di essere autonomo e capace di lasciarsi condurre dalla luce della Parola. Il rito diventava come una presentazione pubblica e per Israele aveva una valenza identitaria perché il popolo di Dio si lasciava condurre dalla Sua Legge.
Accade, però, un fuori programma e cioè Gesù interpreta la Legge in modo inedito a partire dalla sua identità di Figlio del Padre. Da quel momento inizierà a svelare il senso delle Scritture, parte dalla domanda “perché mi cercavate?”, e subito dopo fa una puntualizzazione: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Gesù, dunque, invita a un nuovo tipo di ricerca che si allontana dalla pratica religiosa di chi vuole dimostrare a Dio i propri meriti e che immette la prospettiva dei figli.
La propria missione sta nel vivere la relazione con il Padre e dunque manifestare il suo volto attraverso l’agire quotidiano. Chi si scopre amato dal Padre comprende che l’esistenza è un’occasione per condividere la pienezza del cuore, perché un cuore grato non tiene più per se ma si consuma per il bene altrui, non può fare a meno di amare. La vita del Figlio, cioè, rivela l’identità del Padre.
Quando a pochi giorni della festa della Santa Famiglia celebriamo la solennità di Maria Madre di Dio esplicitiamo la valenza di questo legame che ci unisce al Cielo. Maria, creatura, è indicata come madre del Creatore e questo appare paradossale fino a quando non ci si lascia sconvolgere dall’agire di Dio.
Lui si consegna ad un’umile creatura per essere accolto nella fattezza umana ed è così che si fa prossimo eliminando ogni sorta di distanza. La sua incarnazione, dunque, è subordinata alla volontà di Maria e lei che accoglie diventa testimone che ciò che le sta accadendo è frutto dell’agire divino.
Chi accoglie veramente si lascia trasformare ed è così che l’agire di Dio continua a solcare la storia dei nostri giorni, attraverso l’impegno quotidiano di ciascuno e nella misura in cui lasciamo abitare in noi l’azione del Cielo ecco che si continua l’opera del Signore.
La fede è prima di tutto relazione, desiderio dell’incontro ma non per possedere ma per consegnare tutto e divenirne strumenti. L’amore del Cielo procura questa comunione che permette di consumarsi senza misura certi che nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio.