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Mai cessare di Ridere

“R” come Riso. La specie umana può creare discorsi per ridere e per la gioia del ridere insieme. È un piacere vedere ridere di cuore un bambino così come un anziano, perché il riso è contagioso attiva endorfine come la serotonina che è uno straordinario antidepressivo, scarica la mente da pensieri ossessivi portatori di ansia, favorisce l’ossigenazione e il flusso sanguigno e così aiuta il cuore e la pelle a respirare, dunque, rilassa il corpo e il tono umorale.

Ma sorridere non è semplicemente una questione biologica, fa parte di una postura esistenziale, ci fa umani, autoironici fino condividere la risata per un proprio sbaglio ammettendo di essere limitati. Sapere ridere di sé rivela maturità e profonda comprensione della vita mai rigidamente perfetta.

Il quotidiano è imprevedibile e piuttosto che spazientirsi per ogni cosa che non va così come preventivato, la risata permette di farne comunque un’occasione per evolversi e mantenersi in ascolto del nuovo che arriva, perchè da ogni esperienza si può imparare.

Eppure nella storia il ridere è stato tacciato di puerilità come se la serietà e il rimanere centrati sul compito fosse stata l’unica modalità di esprimere l’essere adulti. Anche l’ascetismo fondato sullo sforzo personale ha lasciato intendere che non c’era spazio per il sorriso e nel tardo medioevo destava pure sospetto e, dunque, da debellare così come ha magistralmente raccontato, ai nostri giorni, Umberto Eco nel romanzo che trae spunto dalla “Poetica” di Aristotele, il quale avrebbe ammesso il riso seppure in forma moderata.

In realtà già Democrito si era reso conto che l’umano non è capace di dominare conoscenza e corso degli eventi e pertanto l’umorismo ne esprimeva la consapevolezza di essere davvero piccolo nel cosmo.

Ma la filosofia, la teologia e la scienza hanno colto come una minaccia nel riso forse perchè poco preventivabile, spontaneo e spesso indecifrabile rispetto al senso ed all’origine.

Un episodio nella Scrittura, siamo nel libro della Genesi, mostra un interessante excursus del riso come sottolinea il sociologo Peter Berger. Nel passo biblico troviamo Abramo e Sara che non si trattengono di fronte alla promessa di una discendenza ricevuta da Dio. Una forma di scherno, dunque, costatando la propria impotenza. Ne segue il riso di rimprovero di Dio per tale incredulità e, infine, il brano si conclude con il riso complice di Sara e Dio per il dono del figlio.

Il riso che fa bene ha bisogno di complicità e meraviglia, non si tratta della derisione ostile ma della gioia per quel che accade così come accade. Dunque si piange e si ride dopo uno spavento, si ride per i propri limiti accettati, si ride per quel che pare impossibile ma ci si mette in gioco senza pretese di perfezionismo.

Ecco il gioco è proprio di chi si apre al sorriso e fin dai primi anni permette di conoscere la realtà che ci circonda e di esplorarla pur mantenendo una certa leggerezza. Il gioco ha un grande valore educativo, permette di passare dal concreto all’astratto e di entrare in rapporto con gli altri, ma anche da adulti il giocare fa custodire il bambino interiore che appartiene a ciascuno.

È la semplicità che apre alla fede e cioè alla relazione fiduciosa con il Padre. Lo spazio ludico, che prima di tutto è uno spazio interiore, mantiene aperti alla creatività e all’intuizione, e non si tratta più del mondo illusorio e onnipotente del bambino ma della capacità di accogliere il mondo esterno e dargli significato, permettendosi ispirazione e atto creativo. È da lì che scaturisce il sorriso proprio della meraviglia.

Quando tutto è meticolosamente studiato e calcolato, la fede si spegne perchè manca dell’ascolto e dell’intuizione. Non si tratta, però, di spontaneismo ma di affidamento, che permette di ridere perchè la risata in fondo è consegna di sé, esposizione allo sguardo altrui e quindi al giudizio esterno.

Nella pagina del Vangelo delle beatitudini Gesù dice felici coloro che al momento sono nel pianto ma che poi troveranno consolazione e rideranno perché hanno saputo consegnare le proprie lacrime fidandosi del Padre. Infelici, invece, quanti godono dell’attimo presente ma poi si spengono nella tristezza.

Il ridere è fecondo, dunque, se si sa attendere e non è meramente legato alla ricerca sfrenata di gioia volta ad appagare il momento presente senza una storia. Il riso, diversamente, è ciò che caratterizza il cammino dell’uomo che accetta di costruire gradualmente la sua storia resistendo di fronte alle prove o agli ostacoli imprevisti.

Ride chi non si chiude nel pianto della tristezza ma attende il cambiamento, chi ha fiducia nel Cielo ed è capace pure di sacrificio. Si pensi alla fatica di molti genitori che pur di mantenere i figli o permettere loro di frequentare la scuola, vivono stentatamente custodendo il gusto della meta. Reggono quella mancanza perchè attendono il giorno in cui potranno condividere lacrime di commozione ed il sorriso della gioia.

Kant affermava che dal Cielo l’umanità ha ricevuto la speranza, il sonno e il sorriso per compensare le difficoltà della vita, e ciò è vero quando il proprio cammino volge verso una meta.

“R” come riso dunque, come rendimento di grazie per il dono di quel che siamo e di quel che ci attende.

Condivido una citazione di Gesualdo Bufalino: “Vorrei dedicare una mattina di questa mia vecchiezza a sperimentare i giochi che non giocai da ragazzo: far volare un aquilone, soffiare bolle di sapone da una finestra…”.