Dai Volti riconosciamo i talenti
T come Talento. Il significato originario del termine “talento” rimanda al tàlaton greco che indicava il piatto della bilancia e il peso che ne procurava l’inclinazione o, ancora, la somma di denaro corrispondente al valore del peso del metallo prezioso.
Unità di misura difficile da comprendere ai nostri giorni in quanto usiamo le banconote che solo originariamente avevano a garanzia una riserva aurea conservata presso la banca centrale e proporzionata alla moneta stampata. Oggi, dunque, quando parliamo di svalutazione il denaro in circolazione perde valore, mentre, il talento manteneva il suo peso.
Sia nel caso del talento naturale che nell’unità di misura della moneta, il talento esprime la portata, il peso, ed è associabile al termine ebraico kabōd che indica la gloria di Dio.
La gloria significa l’importanza, il suo valore, quel che davvero è. Nella lingua ebraica anche il termine “onorare”, che traduce kappod, esprime l’essere pesante e, infatti, il quarto comandamento rimanda al peso da dare ai propri genitori e quindi alla loro importanza per avere felicità. Chi non dà peso alle proprie radici rimane irrisolto perché manca di valutazione obiettiva. Non si tratta di idealizzare i genitori, questo schiaccerebbe, e neppure di deprezzarli per ergersi al di sopra perché, questo, comprometterebbe la verità dei rapporti umani ingenerando sete di rivalsa e competizione. Piuttosto, l’onorare attribuisce il reale valore all’altro che scaturisce dal suo esserci e non dalla sua perfezione!
Il talento, inoltre, ha assunto anche il significato di dote naturale, qualcosa che appartiene all’unicità della persona e che non può essere appresa come le altre abilità. Nel campo educativo, quindi, ci spendiamo per favorire la conoscenza e l’espressione del talento personale che porterà il soggetto a contribuire in modo originale al bene della comunità.
Il talento è dono divino, dunque, e a ciascuno è data la responsabilità di farlo fruttare mettendosi in gioco. Non può essere nascosto per una malsana ricerca di quieto vivere e neppure misconosciuto ricercando altre identità offerte dalle mode di turno, significherebbe sciupare quanto appartiene alla unicità personale.
Il nostro tempo ha spinto verso l’individualismo e il talento è stato confuso con le competenze da acquisire per stare al passo con le richieste del sistema, in molti hanno spento la capacità creativa senza più esprimere il loro talento naturale.
Il ruolo sociale ha espropriato l’individuo della sua parte più autentica e ha consegnato l’identità ad un’immagine pubblica attraverso la quale sporgersi per riscuotere consensi.
Ma risignificare il talento in termini di appropriazione per affermarsi in questo mondo, porta fuori strada, si perderebbe la capacità relazionale aperta al dono gratuito, caratteristica che ci rende veramente umani.
Nel Vangelo la parabola dei talenti entra nel merito della questione e narra di un padrone che consegna i suoi beni ai servi. Tutti hanno in sovrabbondanza e chi riceve meno ottiene un talento, ossia il valore di 60 mine pari a trentaquattro chili d’argento e cioè la paga di trent’anni di lavoro di un operaio.
Un gesto di grande fiducia, dunque, ma durante il viaggio del padrone i servi sono chiamati a custodire la relazione con lui e cioè il ricordo della sua fiducia e bontà che è simboleggiata proprio dai talenti. Essi rappresentano l’occasione per investire la propria vita esprimendone il valore: chi custodisce un cuore grato osa donarsi senza riserve.
Quando il padrone, al suo ritorno, chiede ai suoi i frutti di quanto affidato, regala loro una ricompensa molto più grande, la sua stessa vita, cioè li accoglie nella sua dimora. Ciascuno è chiamato a diventare quel che ha ricevuto in dono ma è solo rischiando che la vita può operare una straordinaria evoluzione, vivere per preservarsi, diversamente, impoverisce fino all’esaurimento di tutto.
L’ultimo servo, anche lui, aveva ricevuto secondo le sue capacità ma, per paura del padrone, aveva nascosto il dono rimanendone estraneo e, dunque, lasciandolo infruttuoso.
Quando la paura viene assunta a criterio organizzatore dei propri giorni l’esistenza si struttura in modo difensivo e i rapporti umani finiscono con l’essere misurati a seconda della convenienza di turno.
Se il servo che ha ricevuto un solo talento rimane distaccato dal dono ricevuto, altri servi, nella parabola dei vignaioli omicidi, hanno la pretesa di eliminare l’erede per potersi appropriare della vigna del padrone. In ambedue i casi, sia il distacco che la pretesa appropriazione, denunciano la mancata relazione col datore di ogni dono e senza questa verticalità è impossibile vivere il talento ricevuto ed esprimere profondamente le proprie potenzialità.
Può accadere, pure, che un carisma ricevuto all’interno della Comunità e, pertanto, mosso dallo Spirito Santo, man mano possa essere sciupato perché lo si usa per la personale autocelebrazione e l’ergersi al di sopra degli altri.
Il talento, piuttosto, apre al servizio e all’interesse per l’altro, procura felicità condivisa e mai solitaria. A ciascuno è dato di rivelare il volto di quanti ha incontrato perché mai si può raccontare se stessi privi degli altri.
“T” come Talento, come trovare il peso prezioso che ha la nostra partecipazione. Scrive Leo Buscaglia: “I nostri talenti sono il dono che Dio ci dà, quel che facciamo dei nostri talenti è il nostro dono a Dio”.