Custodire la relazione che cura
“C” come Cura. La Cura è frutto di una relazione, dell’esserci per l’altro ed è così che parliamo della relazione di cura o della relazione che cura. Potremmo, però, ridurla ad un qualcosa di eccessivamente medicalizzato intendendo il curare per guarire, dunque chiedendo una cura e cioè una ricetta capace di sanare le proprie ferite.
Sappiamo invece che curare è molto di più, la prima cura passa per il nutrimento e non intendo solo quello del cibo, prima ancora viene il nutrimento affettivo, il prendersi cura che rivela l’accudire facendosi prossimi. La cura è possibile perchè siamo umani e dunque fragili, bisognosi di un altro che ci riconosca e si accorga di quello che abbiamo bisogno. Non ha niente a che fare con l’infantilismo di molti adulti o con il vittimismo di chi cerca continue attenzioni. La relazione che cura non è neppure un compiacere continuamente l’altro, cadendo in una sorta di onnipotenza perchè troppo buoni.
Chi si prende cura sa dire di no, rifiuta di dare quel che non serve, sa sostenere la distanza se questo è necessario. Per avere cura bisogna fare discernimento avendo come criterio il vero bene che, sappiamo, non tralascia di valutare le conseguenze.
Abbiamo fatto della cura una questione egoistica e poco rispettosa della realtà che ci circonda, curare l’umano ferendo il pianeta che ci accoglie è solo una cura apparente e priva di efficacia. Nella relazione di cura è necessario uno sguardo che va oltre l’immediato e che è capace di lasciarsi destabilizzare cioè provocare dagli accadimenti della vita.
Nel Vangelo si narra di un uomo diretto verso Gerico il quale viene assalito dai briganti che, dopo averlo derubato, lo lasciarono morente. Passarono da lì prima un sacerdote e poi un levita, ma entrambi vedendolo andarono oltre presi dai loro affari o dalla ideologia religiosa. Forse perchè avevano altro da fare o comunque perchè non volevano contaminarsi.
Successivamente arrivò un samaritano, uno a cui veniva dato poco valore e, comunque, da tenere a debita distanza. Lui sorprendentemente si avvicinò chinandosi su quel moribondo, lo fasciò e caricandolo sulla sua cavalcatura lo portò in una locanda dove potesse essere ospitato. Se ne prese ancora cura e si interesso pure per i giorni a venire.
È l’immagine di chi custodisce il prossimo cambiando occupazione in base a quello che è necessario. La cura abbisogna di flessibilità e, pertanto, bisogna perderci qualcosa, bisogna sporcarsi rischiando del proprio. Per dare spazio all’altro, dunque, è necessario sapere che il tempo non è fatto per fruttare soldi ma per tessere tracce di umanità, trame di bene che si intrecciano sempre più con gli altri.
C come Cura, come Carezza, come Candela che si consuma. Per prendersi cura bisogna consumarsi per l’altro.
Tornano alla mente alcune parole del maestro Andrea Camilleri, così annotava in “Segnali di fumo”: “Gli innamorati non perdono tempo a scrivere ‘ti voglio bene’, mandano una sigla, tvb. E se si vuole far partecipi gli amici di un dolore o di una gioia, basta inviare loro il disegnino che mostra un faccino triste o sorridente.
L’omologazione assoluta. Spero che i poeti, gli scrittori, gli artisti, gli scienziati continuino a scrivere lunghe lettere agli amici, ai colleghi, alle loro donne. Altrimenti i nostri posteri non capiranno nulla dei nostri sentimenti, di com’eravamo”.