Appartenere al Cielo
“A cu apparteni”? Era l’interrogativo che accompagnava l’infanzia di molti di noi e che rimandava al senso dei legami e dell’identità di ciascuno.
Esserci, in questa vita, significava essere figlio di qualcuno e, pertanto, il legame parentale definiva chi eravamo al momento dell’incontro con uno sconosciuto.
Se i legami dicono dell’appartenenza e dell’identità, questo può trasformarsi in prigione quando non sono vissuti nella libertà del dono e cioè nella gratuità del riconoscimento che non è subordinato ad un prezzo.
La cultura meritocratica dei nostri giorni rende difficile questa comprensione di gratuità e, piuttosto, pare necessario dovere dimostrare al mondo intero di avere un valore, ora determinato dal successo sui social o dalle performance di turno che esibiscono la propria bravura e perfezione. Un sistema di pensiero che svaluta ogni sorta di limite o fragilità e che finisce col pretendere standard sempre più alti e competitivi.
Non a caso stanno aumentando i casi di esaurimento emotivo, di depressione così come le innumerevoli nuove dipendenze volte a sostenere il ritmo eccitatorio del momento e la solitudine generata dalla diffidenza relazionale.
L’appartenere, piuttosto, esprime la relazione che cura e cioè l’amore che si dona per il bene altrui.
La festa che celebriamo oggi, la Presentazione di Gesù al Tempio o festa dell’Incontro, porta il sapore di questo riconoscimento. L’occasione è il riscatto del primogenito così come prevedeva la ritualità ebraica ricordando che ogni primizia appartiene a Dio – nella primizia sta la maggiore fertilità e la garanzia della conservazione della specie – e che i primogeniti maschi possono essere tenuti offrendo, nel caso di una coppia povera, due giovani colombe.
La cerimonia, dunque, esprimeva la relazione con il Cielo in riferimento a ciò che il primogenito avrebbe ereditato sia in termini fecondità che di possessi, per cui il riscatto simbolico teneva presente che il tutto non era dovuto ma donato.
Secondo questa prospettiva, tra le civiltà antiche, l’ebraismo introdusse anche la nota del superamento della primogenitura proprio perché il dono era associato al legame con Dio, come nel caso di Abele che fu “preferito” a Caino, o Giacobbe che sostituì il fratello Esaù o, ancora, nel caso di Giuseppe figlio prediletto di Giacobbe.
Presentare il primogenito, dunque, esprime la capacità di custodire il figlio senza diritti di possesso e, in generale, accompagnare la vita affinché possa esprimersi nella sua pienezza godendo del bene altrui senza rivendicazione alcuna. Per questo motivo i figli non sono merito dei genitori ma la loro gioia, dono da accogliere con gratitudine.
Ora Gesù viene riconosciuto da un uomo, Simeone, che è rimasto ad attendere la venuta del vero liberatore e, così, si è predisposto all’azione dello Spirito Santo. In Simeone è racchiusa l’attesa di un popolo che per secoli ha custodito la promessa del Cielo sebbene più volte si sia lasciato ingannare dalla suggestione del potente di turno. Simeone, piuttosto, va oltre le apparenze e non cerca la regalità dell’onnipotente, mosso dallo Spirito riconosce in quell’umile creatura la presenza del Messia.
Uscire dalle precomprensioni è la premessa per riconoscere il dono di Dio. I pregiudizi frutto del calcolo programmato, a seconda dell’attesa idealizzata, resistono all’incontro con il Signore. Il Cielo, puntualmente, si sottrae alla logica schematica e la libertà dello Spirito muove le cose come vuole perché il Bene non ammette misure restrittive come nel caso del perdono, della gratuità o del servizio…
Anna, segnata dalla perdita del marito ancora giovane, e Simeone, pure lui avanti negli anni, permangono in attesa capaci di lasciarsi stupire dall’Incontro. Non hanno abbandonato i loro sogni, non si sono lasciati spegnere dalla vicende deludenti che hanno attraversato ma, in quel giorno di ordinario quotidiano, sono ancora vigilanti.
“Il tempo è compiuto” dice il testo (Lc 2, 22), l’attesa vigilante permette di vivere il fluire del tempo non come qualcosa che sta per finire o scadere ma che va a riempirsi fino ad essere colmo. Il tempo, invece, si sciupa quando si vive secondo la prospettiva del possesso e dell’accumulo ma quando si vive nella direzione dell’amore e del dono, il consumarsi diventa un compiersi.
Ora Simeone può tenere tra le braccia il Messia, è un abbraccio reciproco – così come è di ogni abbraccio – perché anche lui si sente accolto da Dio e pertanto sciolto da ogni impedimento: ora è libero di andare e consegnarsi totalmente.
La Sua presenza è scandalo e segno di contraddizione per molti, dirà Simeone. L’aspettativa propria della religiosità di chi proietta su Dio criteri di convenienza è messa in discussione, viene destabilizzato chi fa del proprio credo lo strumento di potere o, comunque, per rimanere egocentrato.
Gesù è presenza che contraddice la logica del mondo ed è contraddetto perché scomodo e, dunque, da eliminare per non avere un pensiero critico che potrebbe mettere in discussione l’ordine costituito. Anche Maria è intimamente unita a questa missione del figlio, la sua stessa vita sarà trafitta affinché possa rivelarsi il volto di Dio.
Lì a Gerusalemme, dove il figlio tornerà per dare compimento alla sua missione, lei insieme ai discepoli dovrà restituire il Maestro al Padre fidandosi della Sua promessa. L’appartenenza al Cielo che motiva la presentazione del primogenito, infatti, non è per la morte ma affinché tutti possano avere la vita, non è un sacrificare potando tutto per divenire sterili ma, piuttosto, per esprimere in pienezza la propria fecondità.
Anna (grazia di Dio) figlia di Fanuele (volto di Dio) arriva in quella stessa ora, è l’ “ora” della consegna totale, quella che si compirà nella Pasqua di Gesù, e lei riconosce nel volto del piccolo il riscatto d’Israele, l’amato è giunto per cui tutti accogliendolo saranno liberati. È festa della liberazione questo giorno e la vita consacrata ne attesta la veridicità.