Il potere della libertà
La storia appare diretta da chi ha maggiore potere di opprimere, così è per le guerre e i popoli che vengono feriti, schiavizzati e, nei casi peggiori, sterminati. Il potere inteso come pretesa di dominio sull’altro è portatore di morte e non si uccide solo fisicamente ma già con la maldicenza o l’indifferenza come quando il potere genera scarto e marginalizzazione sociale.
Questo tipo di potere sembrava avere avuto la meglio negli anni ’90 quando Palermo veniva sfregiata dalle due deflagrazioni che costarono la vita a giudici e alle loro scorte e, poco dopo, quando con un colpo di pistola veniva ucciso un prete.
Il potere, ancora, sembra vincere quando persone che hanno cambiato vita dopo un trascorso penale si trovano a non riuscire ad inserirsi nel circuito lavorativo e dopo molteplici tentativi andati a vuoto finiscono col soccombere all’ennesima proposta del “protettore” di turno che offre lavoro disonesto ma capace di fare sopravvivere.
Poi troviamo il potere della tecnocrazia che veicola mode culturali, stili di pensiero e di comportamento dove la differenza e la capacità critica vengono condannate, per cui avere un pensiero divergente, ora di fronte ad un regime totalitario piuttosto che di fronte ad una piattaforma dove si propinano modelli culturali che ottengono milioni di follower, spesso costituisce un problema da eliminare!
Anche un sasso lanciato contro un muro può determinare, in risposta, il fuoco di un fucile quando la differenza diventa un problema. Sappiamo bene come le guerre tra i popoli continuano a scoppiare perché l’altro, diverso da sé, non è tollerato.
Difficile leggere le complesse dinamiche geopolitiche del nostro tempo perché la libertà è strumentalizzata e manipolata dal sistema culturale dettato dal mondo finanziario a cui interessa promuovere l’individualismo sociale. Secondo questa prospettiva a ciascuno è dato di autodeterminarsi e pertanto i legami, la fede religiosa o la fedeltà agli impegni presi vengono letti come vincoli alla libertà.
Il risultato è che ciascuno pur pensando di decidere autonomamente e di scegliere ciò che più gli aggrada, di fatto, è succube delle mode di consumo e delle offerte che il mercato propone in modo seduttivo. Sintomo di tale disagio, ad esempio, è la crescita esponenziale di nuove dipendenze o l’aumento dei disturbi a sfondo depressivo.
Parliamo, dunque, di un potere che schiavizza pure chi lo esercita perché il potere, per essere liberante, abbisogna di parametri di confronto che ne permettono l’esercizio secondo la linea della giustizia, del bene comune, della custodia di questo mondo.
Nella pagina del Vangelo di questa domenica (Mt 22, 15 – 21) assistiamo ad una disputa sul potere perché farisei ed erodiani non hanno accettato la risposta di Gesù che, alla fine, non ha detto loro da chi gli veniva il suo potere in quanto non erano capaci di intendere il senso della Sua relazione con il Padre. Dunque tornano ad interrogarlo per incastrarlo e così suscitare o la reazione del popolo o quella del governo romano.
Gli chiedono se è lecito pagare il censo a Cesare sapendo che la risposta positiva avrebbe procurato l’ira del popolo mentre quella negativa avrebbe portato all’intervento dei soldati romani. Gesù, in realtà, farà rispondere a loro svelandone la trama dei cuori.
Li chiama a tirare fuori la moneta che custodiscono e, implicitamente, a cui aderiscono considerato che Lui ne è sprovvisto. E, a quel punto, domanda quale fosse l’iscrizione per rivelare a chi appartenesse quel modo di regolare i rapporti umani attraverso il mercato.
Su quella moneta, infatti, stava impressa la scritta “Cesare Augusto divino imperatore” e sul retro “Sommo Pontefice”. Una moneta, dirà, da restituire – non dice “pagare” – a Cesare perché quel modo menzognero di farsi divini non appartiene al Cielo ma ad un potere fondato sulla falsità. È la posizione che Gesù contesta ai farisei quando cercano confronto con i simili, per essere adulati e considerarsi “giusti”, e chiudono il cuore a Dio perché altrimenti cadrebbe il loro castello di verità volte a garantire le loro ingiustizie.
Al contempo Gesù invita a restituire a Dio quel che gli spetta, ciò che davvero gli appartiene e che porta la Sua immagine: l’essere umano. Il senso della Sua missione, infatti, è quello di riscattare l’umanità che aveva smarrito lo sguardo del Padre e, dunque, di manifestare l’unico potere autentico e cioè quello fondato sull’amore. Il piano relazionale, dunque, si costruisce non secondo la prospettiva del pagare-potere ma del restituire-servire che è espressione propria dell’amare.
Fin dall’inizio del ministero pubblico Gesù è tentato sul potere quando gli vengono offerti tutti i regni del mondo ma a condizione di perdere la relazione filiale con il Padre, e anche sulla croce gli sarà ripetuto di salvare se stesso mostrando la sua onnipotenza.
Quello che il Figlio di Dio mostrerà progressivamente è che nessuno si salva da solo e che il “salvare se stessi”, secondo il principio dell’individualismo, è l’antitesi del messaggio evangelico.
La libertà di amare è ben diversa dalla cultura dell’ “usa e getta”, piuttosto riconosce il dono dell’altro e della propria esistenza quale regalo e non come una conquista di cui appropriarsi.
La riflessione sul potere, dunque, è legata al senso di appartenenza. I nostri padri, nei paesi, quando incontravano un giovane che entrava per la prima volta nella loro casa, chiedevano: “a cu apparteni?”. Era un modo affettivo di entrare in relazione partendo dalla memoria della storia già condivisa con la famiglia di provenienza o per aprirsi ad un legame nuovo con chi portava una storia e delle radici proprie. L’estraneità, secondo questo senso, veniva colta come occasione per l’incontro e l’interessarsi all’altro. Certo esisteva anche un altro senso di appartenenza, quello dettato dalle famiglie mafiose e fondato sul patto di sangue che si reggeva sulla paura di morire per vendetta qualora si fosse rimasti soli. Queste due posture esistenziali esprimono la differenza nell’esercizio del potere, l’una volta a privare la libertà altrui e l’altra per sostenerla attraverso la cura e l’accoglienza disinteressata.
Rimane aperta la provocazione del Vangelo di oggi e cioè restituire a Dio quello che gli appartiene: a ciascuno è dato di assumersi la responsabilità della custodia del fratello e, dunque, di consumare il dono della propria vita.