Lo stupore è di chi attende
L’attesa è quel che dà importanza ai traguardi raggiunti e l’impegno quotidiano trova senso quando si persegue una meta ed è così che il tragitto, per raggiungerla, procura valore ai propri giorni.
L’attesa per eccellenza è quella che va dal concepimento alla nascita e il prendersi cura dei primi nove mesi rivela il desiderio di custodia futuro. Attendere è, dunque, prendersi cura di quello che ancora non si vede, così come la creatura che sta per venire al mondo, lo stesso accade nelle cose del quotidiano: quando si cucina aspettando ospiti o si lavora a distanza in attesa di riabbracciare i propri cari.
Sostiene l’attesa chi ama e fa spazio all’altro, chi conosce la gioia del donare gratuitamente, chi condivide la felicità altrui.
Appiattire l’esistenza sul piano dell’immediato è il grande frainteso del nostro tempo. Quando il “tutto e subito” viene assunto a valore da perseguire, i giorni diventano tristi e la felicità promessa dall’appagamento frenetico lascia un vuoto inesorabile.
Volere partire dal punto di arrivo, per evitare il viaggio, è una illusione malsana e la coltiva chi vuole appropriarsi dell’intuizione della meta che, in fondo, già ognuno porta con sé. Il viaggio esperienziale, invece, svela quanto altrimenti sarebbe inconoscibile e nel cammino è dato di apprendere l’arte del dono. Perché si evolve solo chi è capace di accogliere gratuitamente e, di conseguenza, vivere di gratitudine condividendo i propri giorni.
Il cristianesimo è intriso di questa esperienza e non si tratta di fare delle opere ma di darsi per il bene altrui. Non una dottrina da trasmettere ma la testimonianza che rivela il volto del Cielo.
Fino a quando la fede scadrà in un volontarismo che vorrebbe dimostrare al mondo di essere i migliori, attraverso le opere e i successi, l’umano terrà fuori Dio e, piuttosto, cercherà di dimostrare la propria bravura bastando a se stesso.
Il Vangelo puntualmente ci ricorda che la vita spirituale inizia con il lasciarsi abitare da Dio e senza l’azione dello Spirito che vive nel discepolo sarebbe impossibile il cammino interiore e il donarsi gratuitamente. Senza l’amore abitato non ci sarebbe alcuna capacità di generare alla vita, non quella biologica ma quella che dona senso all’esistenza di ciascuno.
Scoprirsi amati rende capaci di accogliere la Parola e di lasciarla incarnare nel proprio quotidiano. Non si tratta di un processo di imitazione, piuttosto, è Cristo a vivere in chi lo segue.
La tenacia, dunque, non consiste nel dimostrare di essere più abili o perfetti, ma nel sopportare la croce e cioè quel carico di ingiustizie e di persecuzioni frutto dell’ostilità all’amore. Il Maestro aveva predetto che i suoi discepoli sarebbero andati dietro a persecuzione ed è questo scandalo che la vita spirituale insegna a superare.
Fino a quando i discepoli rimasero convinti della logica del vincitore fuggirono di fronte al paradosso della croce. Erano disposti a combattere fino alla morte ma non a lasciarsi umiliare!
Nel cammino che va dall’ultima cena fino alla crocifissione scorgiamo una graduale ed estrema umiliazione: il Maestro era diventato spettacolo per le folle, spogliato non solo della carne ma anche della dignità in quanto deriso e ingiuriato da tutti.
La sofferenza più grave che si possa sperimentare è il mancato riconoscimento da parte delle persone care. Il rifiuto da chi si ama è quanto più profondamente trafigge il cuore. È questo passaggio che rivela la profondità dell’amore e che permette di rimanere in relazione e nel dono, nonostante tutto.
Quando ci immergiamo nell’ascolto di noi stessi, così come accade nella meditazione, la scoperta dell’amore incondizionato da parte di Dio si apre all’esperienza dell’accettazione di sé senza giudizio e alla gratitudine per il dono ricevuto. È da lì che scaturisce la capacità di esprimere il Bene nella propria vita e cioè l’incontro con l’altro quale riconoscimento pieno del suo esserci, perché, incontra veramente solo chi si è lasciato incontrare.