Ho accolto te per riconoscere me
“H” di Hotel. “Questa casa non è un albergo!”. È una espressione tipica di un cortocircuito familiare e denuncia un bisogno di profondità relazionale che appare disatteso. L’hotel, di fatto, è un luogo di accoglienza transitorio, predisposto per offrire un servizio di vitto e alloggio alleviando dal peso della contingenza l’ospite accolto.
Eppure nell’antica Grecia l’ospitalità, xenia, esprimeva un dovere morale volto alla custodia del viandante e all’accoglienza sacra dello straniero in cui poteva celarsi la presenza della divinità. Un’immagine analoga la troviamo nel racconto della Genesi quando Abramo accoglie tre forestieri che riveleranno essere la presenza di Dio. Lui passa come il viandante inatteso e, se trova ospitalità, l’albergo si trasforma nella Sua dimora.
Quando il nostro tempo vorrebbe sostituire gli spazi sociali con gli spazi dei flussi, luoghi anonimi e funzionali al mercato piuttosto che alla qualità della vita di chi li abita, la persona viene spogliata della occasione dell’incontro e della reciprocità che nutre la vita.
Eppure l’umano riesce a risignificare questi luoghi ed è così che le periferie, create per escludere e scartare intere fasce di popolazione, diventano i luoghi dell’accoglienza e del calore umano. O, ancora, le piazze private di alberi e lasciate in un piatto squallore vengono animate trasformandosi in campi di calcio per piccoli e grandi.
Anche un hotel, aldilà dei servizi offerti, può comunque costituire un sistema sociale caratterizzato dalle interazioni tra il personale che accoglie e l’ospite. Uno spazio di qualità relazionale che lascia traccia nella memoria, così come quando negli anni si custodisce l’esperienza e il ricordo dei luoghi di un viaggio.
Lo spazio temporaneo, dunque, può essere uno spazio profondamente abitato anche se fosse solo per riposare a motivo di una estenuante giornata di lavoro in trasferta.
Nel Vangelo troviamo l’esperienza di un uomo della Samaria il quale si fa prossimo di un viandante moribondo assalito dai briganti. Al vederlo è preso da viscerale compassione e dopo averlo medicato lo porta in una locanda e, lì, se ne prende cura. L’albergo diventa il luogo dell’assistenza e della custodia, della vicinanza e dell’interesse e sarà l’albergatore a continuare quest’opera di prossimità.
Poco prima Gesù aveva inviato gli apostoli a recarsi nei villaggi ma senza passare di casa in casa, rinunciando, cioè, alla tentazione dell’Annuncio spot, dove la relazione rimane in superficie e pertanto ridotta a mero compiacimento e reciproca lode ma senza alcuna testimonianza data dal quotidiano, dalla fatica del condividere. In quel caso il Vangelo sarebbe trasformato in uno slogan emotivo, buono per accarezzare le sensibilità ma senza cambiamento esistenziale alcuno.
La parabola del buon samaritano, invece, culmina con una locanda in cui al samaritano impuro viene permesso di entrare. Lui che non poteva avere accesso al tempio viene accolto e l’albergo diventa il luogo della misericordia e della cura, esperienza che veniva deputata al tempio.
Il sacerdote ed il levita che tornano dal tempio, invece, quando lo vedono vanno oltre cambiando strada perché altrimenti sarebbero stati contaminati e ciò avrebbe impedito il successivo ingresso nel luogo sacro.
È il paradosso che fa della religione il motivo della esclusione e non della accoglienza, il confine che mette fuori chi non è riconosciuto “dentro”. Eppure, si scopre, che la fede cristiana apre al cammino, è tracciata da precarietà e rivolge il presente verso la meta in una costante ricerca delle tracce del Cielo già presenti nel quotidiano.
Ogni cristiano, pertanto, vive una costante tensione tra stanzialità e itineranza, si ha bisogno di casa ma al contempo è necessario il cammino, la ricerca e la costante esplorazione per rimanere vivi. Viviamo da nomadi in questa terra e siamo chiamati a piantare, di volta in volta, la tenda e così rimanere in una sorta di mobilità permanente, e di trovare confini, territorio, continuità nei rapporti umani. Oggi si è tornati a parlare di edilizia sociale, di social housing, perchè è emerso il bisogno di casa e di appartenenza ad una comunità, è venuto meno il miraggio del divenire proprietari di un immobile ed è emerso il bisogno di abitare casa. Si parla pure di albergo popolare per custodire i più svantaggiati facendoli uscire dalla logica di assistenzialismo e dando l’opportunità di riappropriarsi della propria dignità.
La relazione umana viene a ricucire la scissione tra spazio e tempo, il luoghi si riappropriano del calore e del quotidiano attraverso i momenti di sosta e di parola. L’albergo così come la casa ritrovano il senso della mensa, spazio attorno al quale condividere il dono dell’amicizia e dell’ospitalità, la gratitudine dell’esserci. L’ospite inatteso accolto a tavola rivela la fiducia in chi arriva e la giustizia propria di chi condivide quel che ha. Ed è la parola a restituire senso ad ogni cosa e a raccontare come la vita non si ferma a nutrire se stessi ma resta aperta al consumarsi per l’altro a cui si va incontro. È bello tenere un posto libero e già preparato nella propria mensa.
“H” di hotel dunque, dell’accoglienza propria del cammino della vita in cui a nessuno è dato di trovare dimora definitiva. Martin Buber diceva: “Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento. Allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio”.