Ospitalità è libertà
Abbiamo fatto delle frontiere dei luoghi di scontro in cui viene negato il diritto all’abitare e la stessa possibilità di futuro. In molte lingue, infatti, vivere e abitare sono espressi con lo stesso termine e, dunque, la frontiera dovrebbe rivelare la fronte e cioè il volto di chi riconosce e accoglie.
Abbiamo bisogno di restituire allo spazio di confine una dimensione sociale, capace di narrare e tessere storie. Invece assistiamo a troppe vicinanze anonime, accordi di prossimità sanciti dalle economie prive di volti.
Il confine definito da un alto muro cinto di filo spinato disumanizza, piuttosto è la soglia a restituire dignità. Per sopravvivere tutti dobbiamo trasformare il confine in area di transito e di traiettorie umane.
Nell’antica Grecia l’ospitalità, xenia, esprimeva un dovere morale volto alla custodia del viandante e all’accoglienza sacra dello straniero in cui poteva celarsi la presenza della divinità. Un’immagine analoga la troviamo nel racconto biblico della Genesi quando Abramo accoglie tre forestieri che riveleranno essere la presenza di Dio. Lui passa come il viandante inatteso e, se trova ospitalità, la casa si trasforma in dimora del Cielo.
Quando il nostro tempo sostituisce gli spazi sociali con gli spazi dei flussi, luoghi anonimi e funzionali al mercato piuttosto che alla qualità della vita di chi li abita, la persona viene spogliata dell’occasione dell’incontro e della reciprocità che nutre l’esistenza.
L’accoglienza ci rende profondamente umani e capaci di valore relazionale in cui si viene a ricucire la scissione tra spazio e tempo, tipica della corsa frenetica dei nostri giorni in cui gli spazi sono vissuti in modo anonimo senza un effettivo incontro tra chi li abita.
Attraverso i momenti di sosta e di parola, tipici dell’accoglienza, i luoghi si riappropriano del calore e del quotidiano, la dimora recupera il senso della mensa, spazio attorno al quale condividere il dono dell’amicizia e dell’ospitalità.
L’ospite inatteso accolto a tavola rivela la fiducia in chi arriva e la giustizia propria di chi condivide quel che ha. Ed è la parola a restituire senso ad ogni cosa e a raccontare come la vita non si ferma a nutrire se stessi ma resta aperta al consumarsi per l’altro a cui si va incontro. È sempre bello tenere un posto libero e già preparato nella propria mensa.
L’accoglienza presuppone un fare spazio dentro di sé prima che nella propria casa, questa postura permette di muoversi verso l’altro lasciandosi interpellare dalla storia in cui si è immersi.
L’arte del condividere è propria di chi sa che l’altro gli appartiene, lo straniero è parte di sé, perché siamo tutti stranieri in questo mondo e cioè tutti bisognosi che qualcuno tenda la mano e non solo quando stiamo per annegare.
Nessuno può dirsi così povero da non potere condividere qualcosa e il valore dell’accoglienza non è dato dai comfort offerti ma dal valore che si dà a chi la riceve.
L’umano che vive il dono, riesce a risignificare i luoghi anonimi ed è così che le periferie, create per escludere e scartare intere fasce di popolazione, diventano i luoghi dell’accoglienza e del calore umano. O, ancora, le piazze private di alberi e lasciate in un piatto squallore, vengono animate trasformandosi in campi di calcio per piccoli e grandi come accade nella grande piazza di Danisinni.
Abbiamo bisogno di restituire il diritto all’abitare e cioè trasformare gli spazi di accoglienza transitori, così come i luoghi pubblici, in aree di interazione dense di qualità relazionale che lascia traccia nella memoria, così come quando negli anni si custodisce l’esperienza e il ricordo dei luoghi di un viaggio.
Lo spazio temporaneo, dunque, può essere uno spazio profondamente abitato anche se fosse solo per un transito momentaneo.
L’esistenza umana, in realtà, è caratterizzata dalla precarietà e si illude chi pensa di mettere radici permanenti. Si assiste, infatti, ad una costante tensione tra stanzialità e itineranza, si ha bisogno di casa ma al contempo è necessario il cammino, la ricerca e la costante esplorazione per rimanere vitali. Viviamo da nomadi in questa terra e siamo chiamati a piantare, di volta in volta, la tenda e così rimanere in una sorta di mobilità permanente capace di trovare continuità nei rapporti umani.
Oggi si è tornati a parlare di edilizia sociale, di social housing, perché è emerso il bisogno di abitare casa e di appartenenza ad una comunità e, di conseguenza, sta venendo meno il miraggio del divenire proprietari di un immobile. Si parla pure di albergo popolare per custodire i più svantaggiati facendoli uscire dalla logica di assistenzialismo e dando, così, l’opportunità di riappropriarsi della propria dignità.
Nel rione Danisinni abbiamo cominciato ad accogliere turismo sociale ossia persone che intendono scoprire la bellezza di Palermo a partire da una periferia e, così, conoscerne la cultura, i sapori familiari, la cadenza dialettale, i rapporti tra vicini. A richiesta alcuni possono andare a pranzo a casa delle famiglie del territorio o condividere il lavoro in fattoria, esperienze di prossimità che danno il senso delle trame relazionali che vengono a tessere il tessuto sociale della Città.
Quando un turista fa una simile scelta rinunciando ai comfort che potrebbe offrire un albergo di lusso, fa una scelta di qualità che tradisce le aspettative del ragionamento individuale e che si sottrae al calcolo quantitativo dove “il di più” vorrebbe avere un valore superiore a quel che è meno.
L’ospitalità, crediamo, è un valore umano che non ha prezzo ed è la premessa necessaria per costruire rapporti di comunità dove, ciascuno, si scopre al contempo ospitante e accolto dall’altro.